Era il Marzo 1821 quando Alessandro Manzoni immaginava un’Italia unita, «una d’arme, di lingua, d’altare, / di memorie, di sangue e di cor»: quarant’anni dopo quel sogno, non solo manzoniano, si sarebbe realizzato con la nascita del Regno d’Italia nel 1861. Era fatta l’Italia, non «gli italiani» e, tra gli altri, era cruciale il problema dell’unificazione della lingua in una nazione che contava circa il 75 ⁒ di analfabeti e in cui la distanza tra la lingua scritta, l’italiano delle opere letterarie, e il parlato, i vari dialetti, era abissale. Fu così che l’allora ministro dell’istruzione, Emilio Broglio, nominò Manzoni a capo di una commissione che proponesse i modi e i mezzi per poter favorire il processo di unificazione linguistica. La proposta manzoniana era quella di una lingua «viva e vera» corrispondente al fiorentino parlato dalle persone cólte. Con quello stesso fiorentino Manzoni aveva riscritto I promessi sposi (1840) cercando il più possibile di avvicinare lo scritto al parlato, di proporre una lingua unica, comune allo scrittore e alla società per cui avrebbe scritto, una lingua specchio di quell’identità nazionale appena nata. I mezzi ideali per la sua diffusione sarebbero dovuti essere un vocabolario dell’uso fiorentino e la scuola. Quella stessa scuola in cui oggi si continuano a leggere i Promessi sposi, nonostante negli ultimi anni si sia discusso a lungo sull’opportunità di proporne lo studio nelle scuole. «Molti pensano che I promessi sposi sia noioso perché sono stati obbligati a leggerlo a scuola verso in quattordici anni, e tutte le cose che facciamo perché siamo obbligati sono delle gran rotture di scatole»: scriveva Umberto Eco, solo uno tra i molti intellettuali a dichiarare di aver odiato il romanzo manzoniano perché costretto a leggerlo da adolescente. La risposta a chi solleva dubbi di questo tipo non sta nella storia di Renzo e Lucia, nella vigliaccheria di Don Abbondio, nella peste o nella dominazione spagnola nella Milano di primo Seicento. Non solo. Sta nella lingua «viva e intera» del romanzo, quella che Manzoni auspicava venisse parlata nelle varie circostanze dalla maggioranza degli italiani, sta nella coscienza identitaria che si difende anche con lo studio dei classici.
Veronica Della Vecchia.