Labirinto quotidiano

Di solito il primo approccio al labirinto è in forma di gioco: il labirinto di Alice di Lewis Carroll. Mentre iniziamo ad usare l’espressione perdere il filo, quasi inconsapevolmente, scopriamo un concetto di labirinto che inizia a farsi più complesso, man mano che cresciamo, fino a diventare metafora di prigionia, simbolo di quei nodi che nella nostra vita non riusciamo a sciogliere. All’interno del labirinto cerchiamo diverse alternative per giungere ad una singola soluzione: l’uscita, perché ce ne è sempre una. Il fuori rappresenta una salvezza, ma anche da lì, secondo Umberto Eco, non si può avere un’immagine globale del labirinto. Allo stesso modo non possiamo vivere noi stessi se non all’interno della nostra esistenza. Così mentre l’uomo proietta all’esterno le proprie speranze, attraverso la ricerca di una soluzione per potervi accedere, il labirinto insiste sul dato interiore, sulla forza e sulla logica dell’individuo. Costante è il rischio dei vicoli ciechi, di dover tornare sui propri passi, di imbattersi in rami inesplorati. Sta all’uomo tracciare la traiettoria che condurrà all’uscita del labirinto attraverso una scelta: affidarsi al puro e semplice istinto o ad un algoritmo, la regola della destra o della sinistra. Nel labirinto quotidiano potremmo trovarci di fronte alla medesima difficoltà che divide la nostra irrazionalità e razionalità, libertà o impraticabilità di percorrere il cammino desiderato per scoprire che il minotauro di noi stessi siamo noi.

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