Ricordo di averti visto nei pressi di Posillipo, in un giorno di settembre col naso all’insù. Seduta scomposta su una panchina di marmo, le gambe incrociate e le braccia abbandonate sulle ginocchia nude. I capelli scendevano lungo la schiena, i tuoi occhi salivano al cielo. Una nuova stagione e una nuova te. Eri in piedi al riparo dalla pioggia sotto un balcone sconosciuto. Marzo e i fiori della tua camicia; di nuovo settembre e il ritorno a scuola dietro il legno di una cattedra. Sono trascorsi sedici anni ed ora ti vedo passare con indifferenza tutte le mattine davanti alla mia finestra, un appuntamento a cui partecipi non volendo. Come se non aspettassi il tuo arrivo, sei ogni giorno una sorpresa per me. Un giorno, forse, riuscirò a descriverti ciò che ancora provo, tutto ciò che non puoi capire, ma solo perché non puoi essere altro da te stessa. Tu che mi vedi come un arcobaleno in bianco e nero, un samurai disarmato, una giostra immobile. Di ogni compleanno trascorso con te ricordo il tuo rituale, la tua aria da cerimoniere quando associavi il numero dei miei anni al significato della Smorfia. 40, l’ernia, un anno in più, il coltello. 42 il caffè. Poi il 43, il labirinto. Il labirinto dove mi hai lasciato e abbandonato all’entrata. Sai, da piccolo mi guardavo allo specchio e mi chiedevo con curiosità come sarei diventato. Ho quarantatré anni non sono nessuno, non so come ci si diventi, ma le uniche cose di cui sono consapevole è di essere nel giusto e di aver trovato un’uscita. Fottiti Marina, ci vediamo in tribunale.