Mi sono sempre chiesta come fanno quelli che vivono a ridosso dei binari dove passano i treni a farsi spiare, ogni giorno, da centinaia di sconosciuti. Le loro stanze, i quadri, i mobili e loro stessi sempre esposti a sguardi indiscreti, a volte distratti, ma pur sempre curiosi, in quella frazione di secondo, della vita degli altri.
Dentro quante di quelle intimità si fosse posato il mio sguardo, negli anni, non saprei dirlo; ad alcuni tornavo quasi ossessivamente, ogni volta che un treno mi portava da una città all’altra come una pallina in un flipper che per me era l’Italia dalla capitale in su. Li cercavo con lo sguardo, quegli ambienti e le persone che li abitavano e che avevo visto per una manciata di secondi appena. Eppure, mi sapevano di casa. Ritrovavo così la strada per ritrovarmi io stessa, come un cerchio che ad ogni mia partenza via via si chiudeva finché non tornavo al punto da dove tutto era iniziato. Avevo girato in tondo negli ultimi anni, rimbalzando tra Roma, Bologna, Milano, Firenze, e non appena mi fermavo pensando che quel moto vorticoso fosse finalmente terminato, c’era un nuovo treno da prendere, un altro viaggio. E così eccole, le mie finestre spalancate al sole o con le tende accostate, i panni stesi al vento e le piante da innaffiare o con i vetri a farsi specchio del cielo grigio; una quotidianità che mi faceva sentire ferma nonostante il movimento. Vivevo con la valigia sempre pronta sotto al letto, ma ogni volta dimenticavo di prendere qualche cosa. Quei riquadri nei muri delle città che mi giravano intorno, però, non scordavo mai di portarli nei miei occhi, trovando sempre il modo di sedermi vicino al finestrino per osservarli.
“Cosa guardi?” mi chiese Michele un giorno, mentre con le dita sfioravo quel vetro spesso, lo sguardo fisso. Rimasi in silenzio, non seppi cosa rispondere. Ero io, al centro di quel mondo concentrico solo mio.
Francesca Kershaw
Foto di Francesca Zucchini