Kahir Ad-Din camminava sulla strada del porto.
Un ragazzo si fece largo, all’improvviso, tra le gambe dei soldati e gli gridò:
-Signore, una moneta d’argento perché tu mi prenda sulla tua nave.-
I giannizzeri, pronti ad impugnare le armi, gli ammiragli, colti alla sprovvista, risero. Risero così forte che per un istante lo spazio intero sembrò crollare sotto il peso di un’esplosione. Ma le labbra di Kahir Ad-Din rimasero immobili. Dritte come la lama di un coltello. Poi, quando anche l’ultima eco di quelle risate si fu spenta, chiese:
– Perché credi che dovrei prenderti sulla mia nave? –
Il ragazzo allora venne avanti, e senza nessuna esitazione nella voce rispose:
– Perché da quando ho memoria, ogni notte, io sogno il mare.-
La ragazza mi ascolta distrattamente, mentre lo scatto meccanico del treno si allenta, fino a diventare il rollio lento di una nave. Ha lasciato il suo libro aperto, sulle ginocchia. Il mondo che si srotola oltre il finestrino, alle sue spalle. E ora mi insegue, attenta a indovinare il punto esatto in cui le mie parole andranno a chiudersi nel nodo, preciso, inequivocabile, di un senso.
Io l’ho capito subito. L’ho capito quando ero un ragazzo. L’ho capito sulla prima nave che ho preso.
Che oltre l’orizzonte non c’è che un altro orizzonte.
Come oltre la pagina di un libro non c’è che un’altra pagina. E un’altra ancora. Subito dopo. Scritta con gli stessi caratteri. Le stesse lettere. Soltanto mescolate in combinazioni diverse. Eppure capaci di disegnare, in quella semplice variazione, il miracolo di un altro paesaggio, di un nuovo personaggio, del tassello di un’azione inaspettata che devia la direzione di qualsiasi vicenda.
La ragazza mi ha chiesto, da dove vengo.
Vento a riprendersi le nuvole, ovunque, ad ogni arrivo, come una mano passata sul viso a cancellare tracce di pensieri incerti. Profili di terre affilate a graffiare la schiena, come unghie di amanti, trovate e perdute, su decine di spiagge.
Ich bin. Je suis. I almost don’t remeber.
L’Algeria incastrata tra l’Africa e l’Europa. Tra le braccia dei francesi. Sotto lo sguardo dei russi. Con una catena di dittature legata ai polsi.
Le spalle al deserto. E il mare di fronte. A ogni ora. A ogni istante. Disteso come un ponte, a fare di tutte le onde un invito, e di tutte le navi un miraggio.
E’ così che me ne sono andato.
Probabilmente potrei dire che è stato anche per disperazione. Anche per miseria.
Ma allora dovrei riuscire a spiegare cos’è che intendo per ricchezza. E cos’è che intendo per libertà.
Ho sposato mia moglie a Londra.
Abbiamo scavato fino allo strato antico di roccia che tiene le nostre radici. E disegnato tatuaggi di henne, a reinventare le linee troppo semplici che qualcuno ha appena accennato sui palmi delle nostre mani.
Ho imparato a usare legno, acciaio, mattoni, per riempire l’Europa di strade, di case, palazzi.
Ho lasciato figli in ogni nazione.
Il primo in Francia. L’ultima in Germania.
Ho parlato tutte le lingue.
E le ho ascoltate parlare. Perché le lingue parlano. Parlano una storia lenta che ricorda a stento nomi altisonanti di Re, o Generali. Una storia che vive di gesti impercettibili, ripetuti per tempi così lunghi che la memoria stenta a contenere.
Un pensiero banale, probabilmente.
Ma trovare una parola che sia la stessa in ognuna, vederla cessare di essere un suono che racchiude una forma, per diventare il contorno di una strada tracciata da passi di altri uomini – popoli come correnti silenziose a mescolarsi, scontrarsi, elidersi – non è una sensazione banale.
Non ricordo più quale vento ci abbia portati qui. Ma è qui che ci siamo fermati adesso. Nello scalo ferroviario di una cittadina qualsiasi alle porte di Roma. I vicoli stretti, gli orti ritagliati come fazzoletti distesi a stento tra le case e la strada. Mi ricordavano Algeri. O forse Brixton.
La mia ricchezza – io – l’ho trovata. E conservata. Qui. Dentro i miei occhi. Dove tutti possono vederla. Dove nessuno verrà mai a rubarla.
La ragazza continua ad inseguirmi con una domanda sospesa nello sguardo, nello sforzo silenzioso di anticipare il punto esatto dove questo fiume di parole andrà a chiudersi in un ansa calma, o a sfociare, in un letto più grande.
Non ha capito che non è un velo di saggezza, quello che mi disegna ragnatele di rughe sulle guance. Solo una coperta di storie. Non ha capito che non c’è nessun punto, a cui voglio arrivare. Vengo da troppi luoghi diversi per non avere imparato che il mondo non insegna che a raccontare.
I giannizzeri, gli ammiragli, risero. Risero così forte che per un istante lo spazio intero sembrò dover crollare sotto il peso di un esplosione di voci.
Ma Kahir Ad-Din – il Barbarossa, il Belyrbey di Algeri, l’incubo dei Re e degli Imperatori Europa, la spina nel fianco della Sublime Porta – aprì verso l’alto il palmo della mano.
E si prese la moneta.
La moneta e il ragazzo.
Perché Kahir Ad-din era l’unico signore del Mediterraneo.
Eppure ogni notte – con gli occhi chiusi, tra gli stucchi dorati dei suoi palazzi, o sotto il soffitto di legno delle sue navi – da quando aveva memoria, come un ragazzo, sognava quella impercettibile variazione d’azzurro che segna la soglia di un nuovo mare.
Margherita Maggi
Foto Stefano Questorio