Il treno lascia la guerra. Si allontana dalle montagne e dai morti, dalle ferite, dalle trincee, dalla paura e dalla fame. Ad ogni sbuffo di fumo, ad ogni chilometro percorso, aumenta la certezza di andare nella direzione giusta: case, colline e nuvole vanno tutte in senso contrario, vanno là dove ancora si spara e si muore mentre il treno lascia la guerra, scivola come una bestia in fuga lungo la pianura umida di pioggia e di lacrime che non si vedono. Donne immobili con lo sguardo fisso alla terra passano come le pecore, come il grano, come le file lente dei pioppi che lentamente spariscono e gli uomini, questi uomini, abbandonati sui sedili, smunti e pallidi assomigliano a quelli che sono rimasti lassù: anche questa è una trincea che sbuffa e avanza ma pur sempre una trincea dove ti devi raggomitolare per non morire e per non pensare, anche qui lo stesso silenzio, la stessa rassegnazione. Il treno va, senza una voce, un grido, un canto, un richiamo. Sussurri, qualche tenue lamento e sguardi che battono al ritmo lento del ferro e dell’attesa. I vagoni sono pieni all’inverosimile, gli uomini occupano qualunque spazio disponibile, eppure non ci sono voci, sembra di essere in chiesa durante un funerale, ma forse sono cadaveri quelli che fanno finta di viaggiare, cadaveri che respirano e si specchiano gli uni agli altri e provano vergogna. Arriveranno, torneranno a casa, accolti da mogli, madri, spose promesse e si spoglieranno e mostreranno i loro corpi smozzicati e provocheranno ribrezzo. Saranno toccati, accuditi per pietà, ad ogni passo saranno seguiti dagli sguardi. Pietà e ribrezzo. Ecco quello che accadrà. Ecco quello a cui pensano. L’assenza di braccia, gambe e occhi smorza ogni parola, ogni attesa di un abbraccio. Quei vagoni trasportano pastori, contadini, fabbri, panettieri, pescatori; vite fatte di movimento e lavoro che è movimento. I giorni cominciano presto e finiscono tardi, si susseguono e prendono concretezza dall’azione e dal sudore. Se potessero impiegare il tempo a leggere, scrivere poesie, discutere di filosofia, visitare musei e gallerie, sedersi sulle poltrone di un teatro, forse la mancanza di una mano o di un piede sarebbe meno ingombrante, forse susciterebbe ammirazione, rispetto, ma che rispetto può suscitare un pastore che non riesce a mungere una capra o un pescatore che non sa più tirare una rete, un contadino che manovra la zappa senza energia e precisione?
Il treno attraversa la primavera che scoppia di fiori e nuvole leggere, è tutto un canto là fuori, un fremito di vita che parte dalle radici dell’ultimo filo d’erba fino ai germogli teneri delle betulle e dei biancospini e pure quello sbuffo nero di fumo che svapora nel sole sembra un pezzo di vita.
Tratto da “ La grande guerra di Achille” Ed. Efesto 2017
Claudio Leoni
Foto di Paolo Ferruzzi