In certi casi è meglio restare immobili e attendere. Inutile fuggire, inutile gridare, inutile pregare. Gli ultimi raggi di sole scagliano ondate d’ombra e calore secco sulle impronte appena stampate sulla sabbia e che già hanno perso ogni possibilità di suggerire ritorni e salvezza. Il piccolo essere umano non osa guardare colei che senza pietà e comprensione gioca con il destino dei viandanti, aspettando la parola che decide, lei sola, vita e futuro. Il deserto alle spalle scivola verso l’infinito e con la tremenda pazienza nota solo al tempo, aggiunge ancora un granello di sabbia e un altro e un altro, incurante del fruscio dei millenni. Il silenzio del tramonto avvolge quel fragilissimo uomo che aspetta a capo chino l’enigma da risolvere. Niente. Le fauci della sfinge restano pietrificate come il cuore di basalto che le batte nel petto. Per secoli non ha ottenuto risposte soddisfacenti e così grazie alla mancanza d’acqua, alla solitudine, al caldo, al terrore, ha solo accelerato il momento della dissoluzione e del disfacimento a cui quegli esseri erano destinati. È un’attesa lunga e muta perché dalla bocca del mostro non arrivano parole, ma solo un gorgoglio profondo e doloroso, scaturito dagli anfratti cavernosi di una gola piena di vento. Ora il piccolo uomo solleva la testa e guarda l’origine del terrore, ma riesce a provare solo tristezza e pietà.
La sfinge è morta! L’ultimo brandello di naso è solo polvere che l’aria inquieta trascina a nutrire le dune così come la bocca feroce e gli artigli e gli occhi funesti, Il volto è ormai un teschio vuoto e consunto e il corpo maestoso, attimo dopo attimo, sfarina e scompare seguendo la legge severa delle cose terrestri. Senza più enigmi da sciogliere e prove da superare il piccolo uomo può riprendere il viaggio, ma nessuno comprende se la mano sugli occhi stia a proteggere dalla polvere o ad asciugare una lacrima.
Claudio Leoni
Foto di Romina Bracchi