Se apriamo un qualsiasi vocabolario di una qualsiasi lingua del mondo, vedremo sempre associata la parola “identità” al concetto di singolarità. Ciò che è uguale si riconosce, rende sicuri, fa a sentire a proprio agio, come quando accettiamo l’immagine riflessa rimandata da uno specchio. L’identità è uguaglianza, certezza che tutto ciò che ci circonda resti fermo così com’è. Se fossi stato un compilatore di voci di vocabolario avrei intentato una battaglia lessicale, facendo perno sulla convinzione che l’esattezza di una parola corrisponde anche alla maturità di un pensiero. In questa strampalata riforma lessicale avrei manomesso tutti i vocabolari del mondo scrivendo che “identità è differenza”. Perché legare proprio queste due parole dal significato completamente opposto? Qualche difensore del purismo concettuale e lessicale mi avrebbe dato sicuramente del somaro, o per non essere troppo sgarbato, del grossolano, se non dell’impreciso. Ma in realtà la precisione nell’accostare questi due termini è millimetrica, quasi come fosse un passo di danza o la sutura di una ferita. L’identità che si fa cognizione della differenza implica l’uscita dal conformismo, ovvero quel meccanismo che ci insegna ad essere omologati, indifferenti, identici. L’identità come differenza, dal canto suo, diventa un atto di rispettosa resistenza. Ed è una resistenza che, a differenza del conformismo, stimola l’uso del pensiero: l’identità come differenza chiede di essere capita, non essendo un paradigma già dato. L’identità come differenza si dispiega anche nel suo essere costantemente una nuova scoperta: se guardo l’altro in maniera dialettica, se comprendo le differenze, posso dirmi arricchito di una cognizione e di un’esperienza che mai si sarebbe potuta fare (per mera mancanza accidentale, ma che però è significativa) all’interno di un gruppo che professa soltanto una costante riproposizione di ciò che è. In un tempo come il nostro, nel quale l’appiattimento sta diventando – nostro malgrado – un valore, è necessario resistere praticando un pensiero contrastante e vitalizzante. Da una parte c’è la cecità, dall’altra una visione d’insieme, come quando ci si siede sulla sporgenza di una rupe e si riesce a vedere la pianura sottostante e, al di là di questa, il mare.
Mario Cianfoni