Ricordo di aver visto un film chiamato Taking lives, che letteralmente indicava il gesto di prendere la vita di qualcun altro ed impossessarsene. La traduzione italiana era Identità violate: lui uccideva le persone e gli rubava la vita, i ricordi, oltre all’identità ovviamente. Lì per lì fui disorientato senza capire perché, avevo uno strano senso di inquietudine, non riuscivo a focalizzare quale fosse il problema, in fondo era solo una traduzione. Pensandoci bene la cosa che non mi tornava era l’accostamento della vita al senso di identità: come può una vita intera risolversi nell’identità? E come può essere esaustiva nel definire una vita? Rubare un’identità non è rubare una vita: posso prendere un nickname e una password ed avere un’identità digitale attraverso cui lasciar trapelare immagini e momenti di una vita, declinata dentro un’identità ben precisa, costruita alla perfezione nei minimi dettagli, superando perfino il dilemma “siamo chi diciamo di essere o siamo ciò che siamo?”. Posso avere un falso documento, una nuova identità, un altro aspetto per aggirare l’ostacolo e farmi accettare. Ma dietro una vita c’è molto altro, c’è l’identità, ma non si esaurisce in essa. La vita di un essere umano è una storia vissuta, non ricostruita, è una geografia dei luoghi e una mappa di ricordi, una storia densa e lenta, una macchina complessa che sfugge all’approssimazione e alla consolazione di aver svelato, dietro una categoria, l’identità di qualcuno. L’identità non basta, è solo la semplificazione pratica di ciò che ci sfugge, del tempo intrappolato in un attimo rivelatore. L’identità non ti svela niente, se non quello che ti è più semplice capire, più facile da giudicare, quello che non ti richiede tempo per capirne la complessità. Non può bastarti e non ti basterà.
Gianmarco Mattoccia