La notte è meno notte: s’addolcisce, schiarita dalle esplosioni di mortaio. La trincea diventa palude, melma che incrosta la divisa e fodera le mani. Fai la nanna alla spingarda? domando a Ganda. Sono giorni che non apro bocca. Quasi non riconosco la mia voce. Se avrò cura di lei, lei mi salverà, dice. Vinicio tira su con il naso. Sputa sangue a ogni colpo di tosse. Fra noi tre, è quello messo peggio: più morto che vivo.
Io faccio ciò che devo. Sparo a tutto quello che si riverbera sulla trincea. Amici o nemici: la mota e la notte rendono tutti uguali. Le urla di dolore non hanno idioma, parlano a tutti, ci ricattano. Sarebbe meglio non capire.
Tre Giona! Riorganizziamo le truppe, ché il bombardamento preannuncia assalto! grida il tenentino. Ganda mi fa un cenno con due dita. Le sue unghie lunghe e gialle sembrano di zolfo. Beve grappa, bercia che il tenente si caga addosso.
Di nuovo sotto attacco, nascosti nei crateri scavati dall’artiglieria prima che si riempiano di merda. Bracchiamo l’ignoto inciampando sui cadaveri di chi ci ha preceduto. Il nemico è là. Lo crivelliamo, gioiamo nel vederlo schiattare su queste cime vomitate dal Padreterno.
È ora di rientrare. Ganda, Tobia e Vinicio: i tre fratelli Giona. Ci chiamano così perché sopravvissuti per dieci giorni in una grotta allagata, nella pancia della balena. Ganda mi scruta con l’elmetto calato sugli occhi. Siamo ancora vivi, dice.
Piove acqua pulita che mi monda dalle sozzure della guerra. Resto accanto al fuoco, finché qualcosa di pesante e viscido mi si arrampica sulle gambe. Il guizzare ripugnante e irsuto di un ratto di trincea, grasso come un gatto persiano. Spesso osservo i topi mentre lacerano le carni dei cadaveri; partono sempre dalla pancia, la parte più buona.
Tre botti normali, poi un quarto più forte. Una cometa viola attraversa metà del cielo partendo dalla parte sbagliata. Mi tappo le orecchie, con il fucile stretto tra le ginocchia. I topi scappano. L’istinto mi dice di gettarmi a terra, di infilare la testa nel fango. Il suolo trema dalle viscere e rutta un effluvio di terra fresca.
Tutto tace. Il fuoco che ha attaccato le tende rischiara un arbusto di carne appena trapiantato, un avambraccio conficcato nel terreno molle. Emana l’odore di polli a rosolare appena spennati. Poco più in là, rotola una mano chiusa a pugno, staccata dal corpo. È la mano di Ganda, la riconosco dalle unghie. La pelle gli è diventata ferrigna, come quella della carne di daino troppo cotta.
Corro alla ricerca di Vinicio, tra i mitraglieri, che sono al loro posto, a scattare gli otturatori. La mia arma d’offesa trema d’eccitazione. Un boato, poi polvere, merda, fumo. Un’altra mano mi carezza il volto, cresposa e smaltata di fango. Vinicio mi sversa le sue viscere addosso. Mi battezza con la morte. Il suo cadavere è venuto ad affossarmi, ad abbracciarmi.
Bruno Balloni
Foto di Gaia Vettori