Peccato originale

Era un’estate, più di quindici anni fa. L’adolescenza si insinuava tra i giochi e i rilievi del corpo che sfidavano il pudore. Ero ad un campo scuola con la parrocchia. Ci chiesero di camminare nel bosco al tramonto, alla ricerca della nostra preghiera. Ci istigavano tacitamente a dimenticare la carne giovane. Chiamavano “il deserto” quel tipo di pratica. O forse non la chiamavano e io mi ricordo di aver pensato di trovarmi improvvisamente a camminare in un deserto. Tra le cortecce sfibrate dalla secchezza estiva le mie mani disgiunte tenevano una penna e un pezzetto di foglio bianco. Lì sarebbe caduta la macchia, lo schizzo di un inchiostro colpevole di stigmatizzare il silenzio. Non ho memoria della preghiera, ma quella sera, per la prima volta, nella quiete godevo di una parte di me sconosciuta. La stessa che ancora oggi è in preda ad un senso di soffocamento, simile al piacere di perdersi. Ricordo di essere tornata al campo mentre il buio emergeva dal sottobosco e colava dalle estremità dei rami, le foglie crepitavano sotto le scarpe di tela. Puntavo il fuoco acceso nella radura. Gli adulti ci accolsero ingigantendo il silenzio con la loro immobilità, aspettavano seduti in cerchio. Le fiamme lambivano di bagliori rossi i loro occhi di devoti, tenuti ben aperti. Dentro le viscere i morsi della fame e del vuoto di cui mi ero abbeverata mi lasciavano stordita, con i sensi intorpiditi. Pronunciai le frasi scritte. Tutti parlammo come invasi da voci che dentro di noi risvegliavano presenze. L’eccitazione del calore delle fiamme rese le parole palpitanti, ma quelle orazioni, come le braci, erano destinate a spegnersi tra sospiri fatui. Morirono, arse vive, quella sera stessa. Ricordo il riverbero dei canti che si innalzavano con le scintille, dentro il petto premeva un’ignota paura. Nelle ore più scure di agosto pregavo per scacciare la tentazione di un peccato che sarebbe penetrato nella memoria senza senso di colpa.

Elisa Cappai

Foto: Ryan McGinley

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