L’acidulo ricordo dei pensieri

Era un tempo di cui non ricordo il numero. La calligrafia era più salda di quanto lo fosse oggi, la noia era onnipotente e le passeggiate cariche di segni. Lo strusciare delle foglie, sotto i piedi addolciti dall’infanzia, suonava come il verso di un disturbo, come cogliere l’ortica a piene mani, percepire la forza esterna di una natura che ti chiama quando l’urina scappa disturbante, quando il vomito risale, il fondo dell’occhio s’addolora contratto dall’umidità dei nostri luoghi. Poi nella cameretta, piccolo, di nuovo s’apprende, cosa malvagia il tutto ristagna senza forma. Come il vento selvatico che dentro si contrae, cercando la salvezza nei bulbi degl’insperati fiori. Il buio ti avvolge e ne ricerchi il senso, ma per indole hai appreso ad accorgerti delle rovine e quel nero appare chiaro volerti inorridire essere un sepolcro già colmo dei fantasmi che in quei luoghi hanno deposto le intenzioni. Ed ecco baluginante, la mattina mia nonna mi chiamava, “come si sta bene qui”, diceva, puntando il dito chissà dove d’esatto nel giardino e raccontava la storia di antichi parenti che giunsero dall’India. E la voce e i proverbi in litania, l’occhio brillante, la corsa senza fiato nei filari assolati fino al dolce chinare la schiena per raccogliere le pere. Chioma raccolta in un alto chignon, sagoma d’altri tempi ormai cangiante in foto pallide e sbiadite. Si sciolse i capelli un giorno, grigi scendevano la schiena, lunghi inimmaginabili, vidi un segreto, il mistero della pettinatura d’Ofelia coraggiosa. Poi di nuovo da mano a mio padre, fugii dal bosco nella tomba annacquata di un etrusco, vidi il letto, da lontano mi chiamarono per nome, ma lì in silenzio restavo contemplando le muffe che affrescavano vertiginose i soffitti e i finti cuscini. Toccai la pietra, questo valse per la vita. Nella camera del risposo giacque il corpo d’Ofelia, “non toccare”, parenti diradati nella mischia, violando la legge agguantai il corpo gelido di nascosto con le dita ritorte tra di loro, capelli in ordine come sempre. In un instante precipitarono, il freddo della carne entrò nel sasso sfondò il ricordo confuse l’idea: la bottiglia gelata al bordo del tavolo quasi a cadere, il letto di tufo del lido addormentato, l’anello di vetro con la stella alpina, il cubetto di ghiaccio sulla pelle estiva. Poi una voce, di sogni forse la traccia, raggelai, astenendomi nel saper quale era il senso di quel verso nella notte, l’acidolo rigorgo dei pensieri, dissi, “ecco, forse di qualcosa ho memoria”.

Gabriele Romani

Foto: Paolo Coronas

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