Ogni sera concludeva la serata con “ Love is a losing game”. E quando la cantava, guardava la porta del locale, aspettando di vederla entrare. È che voleva solo prendere una birra con lei, parlare di quella canzone che sentiva così vicina a entrambe, quella canzone che tirava fuori con la sua voce ruvida e che la riportava in un tempo lontano, quando aveva folle di persone che l’amavano, quando viveva di musica e del fango di Woodstock, quando tornava a casa sola come nessun’altra. L’amore era un gioco, e lei aveva giocato. Ci aveva messo tutto l’impegno, aveva dato se stessa e la sua voce, aveva sperato che un riflesso di quella passione arrivasse anche a lei, che la investisse con la forza del blues, la stordisse con la carezza dell’LSD. E aspettava che la porta si aprisse ed entrasse quell’anima gemella di un’altra epoca che come lei aveva giocato ed aveva perso, anche lei sopraffatta da qualcosa di impalpabile come il successo, anche lei sola e perdente. E quando la vide arrivare, finalmente, una sera di fine Luglio, la riconobbe subito: tacchi alti, gambe secche, tatuaggi, eye liner, una montagna di capelli neri, Amy, ecco la creatrice di quella canzone che le univa. La vide avvicinarsi con un passo un po’ incerto, mettersi una mano sul petto con l’emozione di chi vede un dio. Cantò l’ultima nota, posò il microfono e si avvicinò ad Amy, anche lei ventisettenne, anche lei entrata in un mito di cui avrebbe voluto fare a meno, destinata a qualcosa di diverso dalla normalità. Si sedettero a un tavolino, Amy e Janis, la prima si accese una Lucky Strike, l’altra rollò del tabacco in una cartina, allungarono le mani sul legno cerchiato dai boccali di birra del tavolo, si guardarono negli occhi, soli e perdenti, e non si dissero nulla.
Serena Ciriello