Chiunque abbia letto “Cent’anni di solitudine” avrà provato almeno una volta a immaginarsi Macondo. Il villaggio favoloso, al confine tra la realtà e l’immaginazione. Il teatro delle vite delle quattro generazioni della famiglia Buendía, legate indissolubilmente dal filo di una solitudine comune che non unisce mai. Un mondo magico, ma intensamente realistico, dove tutto può succedere senza che accada mai nulla, dove il tempo è sospeso in un’eterna lentezza. Macondo è una terra di confine tanto affascinante quanto inquietante, tanto fantasiosa quanto vera. Non così diversa dalla Lampedusa mèta di migliaia di immigrati siriani, eritrei, somali che fuggono disperatamente da guerre, dittature e povertà, mèta delle loro speranze per lo più disattese. Terra di confine, come Ventimiglia, lungo la frontiera italo-francese, teatro di fermi e sgomberi di accampamenti di migranti che, proprio sul confine, rivendicano la libertà di varcarlo, la sacrosanta libertà di camminare verso un’Europa più accogliente e integrante. O come Lesbo, dove tutti i migranti giunti dopo il 20 marzo 2016, in seguito ad un accordo firmato dall’Unione Europea con Ankara, sono in attesa di essere rimandati in Turchia, chiusi nel frattempo in un centro di detenzione per poter prima essere identificati. «Siamo tutti sotto lo stesso cielo, ma non abbiamo tutti lo stesso orizzonte»
Veronica Della Vecchia