Un whisky e una Marlboro

…e ora questo? È un tre o un cinque? Merda, non capisco. Dovevo scrivermelo sul cellulare, o sulla camicia piuttosto. Invece no, come nei film. Come quando fai una cosa ma solo perché è parte di una memoria collettiva. Un’immagine consolidata che senza quella ti pare non ci sia un senso. È un mito. È un rito. E io son facile a questi sentimentalismi. Poi, per di più, se di mezzo c’è un sorriso di una donna e la voglia d’essere apprezzato e anche l’alcol, parecchio, allora parto per stereotipi e atteggiamenti rubati. Gesti universali ma in fondo nessun pratica. Bevo whisky come se mi piacesse davvero, fumo Marlboro anche se costano troppo, appoggio un piede al muro nonostante il distillato mi abbia rubato l’equilibrio e parlo stando vicino al volto delle ragazze senza pensare al mio fiato che puzza di brace. Ero così. Come James Dean ma senza il suo fascino. E senza la moto o la macchina. Senza i suoi soldi e pure senza la sua chioma. Ma di certo più ubriaco.

Tutti i trucchi del piede, del whisky e delle Marlboro han funzionato; ho persino tirato fuori un pettine dai jeans come Fonzie: quello del sabato. Poi, nel momento in cui l’ho convinta che son meglio di quel che sono, per non cadere sul finale in un fare banale, il suo numero, ovviamente, l’ho segnato sulla mano. Sul palmo. E son stato bene attento, lo ricordo. Tutti i drink bevuti dopo l’ho impugnati con la destra e ho cercato di non sudare e di non sfregare contro niente. Un whisky e una Marlboro, poi un altro giro di tutti e due e, quando era il momento che un po’ ne dovevo tirar fuori, ciondolando tutto sbronzo, mi son pisciato sulle mani e il numero è sfumato. Come l’occasione di andare fino in fondo. Come i cinquanta euro con cui ero uscito quella sera.

È un tre o un cinque? Non capisco. Ma è comunque un’insufficienza. Una serata di merda.

Alessandro Agnese

Foto di Demetrio Mauro

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