Il silenzio a volte è dovere, così come la distribuzione sul capo delle ceneri dei residui della combustione di mille lingue che sapevamo il giorno di pentecoste: vedevo le pitture e mi ricordavo degli immensi roghi di foglie e tele che allestiva alla sera Claude, perennemente insoddisfatto. Mentre tutto si consumava noi seguivamo con lo sguardo il volare aereo degli stralci di tessuto infiammati: la pittura era rovente e noi intiepiditi dalla sua combustione. Avevo terrore quando si accaniva contro le sue opere – «Ecco Cronos!», urlavo- e le squarciava con violenza: con l’arte non ci si può permettere di giocare e i furbi devono essere puniti! […]Quei fiori sono puro godimento: io so che anch’essi non possono essere pronunciati e che grazie al nostro amico di Parigi possiamo assistere allo sbarramento sublime di ciò che potrebbe bruciarci. […]«Perché insisti?», chiesi a Claude. «Non lo so», rispose. «Stai ricercando qualcosa?», «Non lo so; i paesaggi… ne ho distrutti… ne ho ricominciati…». Solo nell’opera di Monet potevamo incontrarci, in quel nulla che si ripete stancamente, nel suo dipingere sedativo. In quell’acqua vissuta da foglie e fiori in rigoglio ritroviamo il nostro riflesso quasi completato da quella visione naturale, da quel miraggio perfetto che sembra restituire un’immagine unitaria della nostra parvenza d’esserci.
Gabriele Romani
Foto di Paolo della Ciana