«Valéria? Tu vas bien?»
«Oui, ça va. T’inquiète pas».
Mi ero addormentata. Otto del mattino, seguo assonata la lezione di storia della civiltà romana, dove Cicerone diventa Siserò e pure Catilina non è immune all’accentazione tronca. Ogni mattina, quasi all’alba, prendevo la metro a Luxembourg, direzione Les Halles, tra ingorghi di fiati, miasmi di burro e passi di vento. Da Les Halles arrivavo a Charles de Gaulle Étoile, per poi scendere a Villiers, nome quasi identico a quello dell’autore dell’Eva Futura. Allora, non credevo alle coincidenze, neanche al caso. Era il mio sgarbo alla secolarizzazione, alla perdita del mistero. Chi era Eva? Ogni dettaglio acquistava un significato intrinseco, nel senso mellifluo e deforme della mia vita da straniera, come in un piatto di lasagne dimenticato troppo a lungo in frigorifero.
«Heureusement qu’il y a une cuillière et du pain aussi!»
La mia collega intinge un tozzo rachitico di pane nell’intruglio di pasta unta e molliccia, aiutandosi con un cucchiaio. Sento quel che fa, ma evito di guardarla, come se stesse commettendo un crimine insopportabile, e intanto stabilisco un limite mentale di tolleranza per la profondità delle offese recate alla mia storia, alla mia identità. Il campanilismo ha un senso: è un argine. I fiumi sono sciocchi, non dovrebbero mai incontrarsi. Annuisco e le sorrido.
«Et toi tu manges quoi aujourd’hui?»
Poso lo sguardo sul mio portapranzo che esala un odore salmastro. Ho provato a cucinare una pietanza giapponese con riso e alghe. La puzza mi dice che ho fallito, la corrente avrebbe dovuto spingermi un po’ più in là.
«C’est un plat japonais, plus ou moins».
Ora è lei ad annuire e a sorridermi.
Può darsi allora che i fiumi non siano tanto sciocchi e che, anzi, siano crisalidi sociali in potenza. Si mescolano e si aggrovigliano, ché l’omogeneità può cambiarti, ma non ti trasforma.
La prima domenica di ogni mese andavo al Musée d’Orsay a osservare lo stesso quadro di un pittore francese che ritraeva poeti altrettanto francesi. Tutte le volte mi pareva diverso. Mi convinsi che erano i miei occhi italiani a tramutarlo, la percezione distante della prossimità a rinvigorirlo, come strumento lisergico di comunione.
«Je parie que l’Italie te manque, hein?»
«Parfois oui» dico. «Et parfois non».
Valeria Biuso
Foto dal web