L’impatto acustico delle strade

C’è una strada che porta a un paese che si chiama Tristezza. Non ci va mai nessuno di proposito. La gente ride quando si trova di fronte al cartello che indica verso destra. Cercano di scorgere dietro la collina di aceri le mura sdentate che orlano la desolazione di quattro palazzine. Si voltano per guardare un vortice di polvere sulla piazza con ipotetiche panchine divelte. Ma non si vede altro che le ginestre sui massi e la strada che si inerpica con determinazione. Eppure lì c’è genteche vive e muore, magari non tutti i giorni, ma di sicuro succede.

La cosa che preferisco di questa strada è la musica che fa. Di solito spengo l’autoradio circa quindici chilometri prima di incrociare la deviazione per Tristezza. Prima avverto il silenzio, poi entra una composizione turbinosa, come un free jazz, e l’aria si mantiene calda nell’abitacolo. Ci sono tratti rettilinei e curvilinei che dirigono la melodia, le teste dei cipressi dai toni alti. I muretti a secco sono una lunga nota bassa. Improvvisamente il cartello. Non sterzo mai verso destra, ma da lì in poi la musica cambia. La melodia vira verso una solenne marcia e un canto gregoriano sembra sfondare i vetri dei finestrini, si compone piano piano e si appiccica al cruscotto mentre sibilano i canneti oltre il guard rail. Tutte le volte fremo per fare inversione. Mancano trentadue chilometri all’arrivo. Non ho mai tempo per tornare indietro. Vorrei avere una scusa per andarci, qualcuno che mi invita a pranzo in un piccolo ristorante o un evento particolare, un cugino lontano che si sposa. Mentre arrivo a destinazione suono il clacson, abbasso il finestrino, canto a voce troppo alta per dissipare ogni altra vibrazione. Però continuo ad aver voglia di rimettermi in strada. Mi chiedo: chissà che canzoni cantano quelli che vivono a Tristezza.

 

Elisa Cappai

Foto di Ricardo Dominguez Alcaraz

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