Non le gambe, ma le dita. Sono i miei polpastrelli quelli ad aver percorso più strada. Ancora piccini si avventuravano tra le briciole di una tovaglia a quadri e passo dopo passo cercavano di non sconfinare il sanguineo perimetro dei quadranti. Quei residui di pane erano il simbolo della domenica, enfatico collante che ci riuniva intorno alla tavola. Dalla tovaglia le dita minute passarono alle ludiche e colorate costruzioni. Piccole città e scalinate sulle quali salire e scendere a piacimento, palazzi dai quali saltare, ponti sui quali volare. Dai colori dei mattoncini si trasferirono poi sul nero inchiostro dei libri. Rigo per rigo tenevano il segno, sostenendo gli affaticati occhi. E disegnavano nomi sulla sabbia, orrendi cuori sui vetri appannati e vari segni indefiniti nel cielo; come ballerine sulle punte si elevavano nell’aria, volteggiando e offrendosi. Le mie dita hanno percorso un sentiero rugoso, quello della mano di mio nonno. Su quel dorso il tempo aveva lasciato la sua firma indelebile. Erano mani grandi, dalla forma allungata. Mani scure di chi aveva lavorato una vita. Mani gentili che non ho mai visto in movimenti veloci e maldestri. Mani di grazia antica. Macchiate, sciupate, dignitose. Le tenevo tra le mie e toccavo quella pelle così diversa a tal punto da sembrarmi finta. Riuscivo a tirarla. E con delicatezza sfioravo quelle rughe in tutta la loro bellezza. Mi pare ancora di sentirle frusciare tra le mie mani. I calendari scandivano lo stracciarsi degli anni e le mie dita si sono posate su corpi e capelli, sulle terre e i loro frutti, sugli attrezzi del mestiere. Oggi fanno dei viaggi incredibili sulla tastiera di un computer. E credevo di aver dimenticato la strada di rughe sulle mani di mio nonno. Ne ho avuto un flash una mattina di marzo; è stato un fulmine a ciel sereno. Un raggio di sole ha illuminato la mano di mio padre e l’ho scoperta uguale a quella di mio nonno. Identica. E ho avuto paura. Non ho passeggiato con le mie dita su quel sentiero di anni e esistenza come facevo da bambina. Non ce l’ho fatta. Ho avuto paura che la terra sparisse sotto i miei minuscoli piedi, come era stato per il nonno. Le guardo quelle mani, ogni giorno. Affaticate e docili. Le tengo strette e lo giuro, lo giuro guardandoti come se nulla fosse, mi sforzo di non lasciare inumidire gli occhi, lo giuro sul tempo che non ho saputo fermare, sorrido e così divento rugosa anche io, lo giuro: non ci penso a quanta strada ci resta, papà.
Giorgia Pellorca
Foto di Josef Koudelka