Un occhio in meno

La fortuna è nera. I giorni appesantivano i miei passi. Il freddo e gli sbalzi d’umore ne scandivano un ritmo lento e severo. Rallentavo guardando per terra, eludendo gli sguardi. Pensavo, mattonella dopo mattonella, a quanto effimere siano le gioie. Ti eccitano con i loro capelli fluttuanti e poi si allontanano calve e grigie al primo vento di dissenso.

L’aria quel giorno aveva la gola secca. Tossiva, qualche volta, sottili brezze gelate che sentivo attraversarmi le dita, sempre fredde, ruvide, vulnerabili. Ho sempre creduto di amare con le mani. Tra le rughe dei miei polpastrelli devono esserci dei codici che, se accarezzati, divaricano gli arti inferiori delle mie paure. Amo con tatto, senza toccare il fondo.

Il cielo appariva e spariva da dietro al sipario delle nuvole e io anche seguivo quel movimento. Entravo e uscivo di scena senza dire una battuta. Balbettavo pensieri, valori, desideri, senza attenermi al copione. Mi improvvisavo donna, moglie, madre, bambina. Raccontavo la me futura, romanzavo quella passata. Oggi, invece, mi viene da guardare per terra con il silenzio stretto nella mano sinistra. La trascino, come un lenzuolo, sul corpo del pavimento sudicio. Lascio che se ne sporchi le labbra, che allunghi le sue lingue morte per assaggiare il sebo salato, ferroso e aspro dei passi del mondo. Che si prenda qualche malattia così da imparare a rendersi immune. Che si salvi, anche lui, dal non detto. Che si trascini via del tutto, tra le onde delle confusioni e dei rumori. Che trascini via tutto.

Non riuscivo ad avere fretta. Ero in ritardo eppure rallentavo. Mi sarei accasciata, all’angolo della strada e avrei dormito sotto gli occhi sorpresi dei passanti. Forse al risveglio avrei ritrovato un paio di spicci di fronte alle mie gambe, lasciati lì, per empatia, da qualche sessantenne in pensione, pensando alla figlia minore della mia stessa età. Mi sarebbe piaciuto essere la fontana di qualcuno, lo scarico della coscienza entro cui lanciare di spalle un soldo compiendo una buona azione. Mi sarebbe piaciuto esaudire qualche desiderio, vano.

E infine la incontrai. Gettata lì. Inginocchiata. Come una Ave Maria. Livida. Come quelle notti terse con la luna spezzata a metà. Dilatata. Come le pupille vinte dall’ orgasmo. Buia. Come l’ultimo tasto, in fondo a sinistra, di un pianoforte. Polverosa. Come i ricordi di un fuoco. Soffusa. Come le palpebre socchiuse. Nera.

<<Quanto costa questo bracciale?>>

<<Tre euro>>

<<E questo qui con l’elefante?>>

<<Elefante porta fortuna. Cinque euro>>

<<Cinque è troppo. Facciamo tre come l’altro?>>

<<Tre e cinquanta. Oggi tu prima cliente>>

<<Che cos’hai al collo?>>.

Due enormi collane gli gravavano l’una sulle clavicole, l’altra al centro del petto. Entrambe, create dalle spoglie di una bestia, mostravano, serie, le effigi di due morti. Fotografati in bianco e nero, i volti sembravano invitarmi a guardarli, a conoscerci. Gli occhi non sono cementabili. Essi vi seguiranno ovunque. Anche se appesi nelle sale di un museo, incisi nei volti dei ritratti, essi vi guarderanno, in attesa della vostra scomparsa. Ne è immortalabile il movimento.

Si può non morire dentro ad una fotografia. Sopravvivere.

Ho visto, in quelle facce, un presentimento.

I piedi scalzi di una piccola folla di bambini, con le unghiette sporche e le pance vuote, smuovevano la terra. Ci sarebbe stata una luce, un rumore secco, come uno sparo, e una leggera fumata bianca si sarebbe sparsa nell’aria, disperdendosi. Così, si diceva, che attraverso quello scatto si sarebbe rimasti vivi. Vivi fintanto che qualcuno avesse avuto la dedizione di conservarne con sé, su di sé, dentro di sé, la fotografia. Di Figli dispersi. Di Padri devoti. Di Idoli. Di Terre.

Di Madri.

<<Questo è il mio capo musulmano. Ma noi non come quelli, che fanno cose brutte>>. Allargava le braccia, come a tirarsi indietro. Come se lo stessi giudicando.

Spostai l’attenzione sulla seconda collana, quella che gli ciondolava al centro del petto, dividendone i seni. Su un’enorme cipolla di cuoio nero, una fitta tramatura di cuciture spesse incorniciavano la fotografia ingiallita. Allungando la mano, ne ho sfiorato il contorno e ho avuto la sensazione di seguire i margini rialzati di un’antica cicatrice. Tutto il dolore della rottura. La pulsazione della ferita. Il calore liquido del sangue sciolto. Tutto il raccordo del ricordo.

<<Questo è mio nonno. L’ha fatto lui. Nonno era artista di scultura, pittura in Senegal. Ha fatto tanti questo e altre cose. Tutti compravano tanti soldi. Tutti conoscevano. Mio nonno quando è morto ha dato a mio padre e mio padre ha dato a me quando è morto dieci anni fa. Io ho sempre con me per fortuna>>.

<<E dove ce li hai tutti gli oggetti che faceva tuo nonno?>>

<<Io ce l’ho a casa in Senegal. Li ho messi alla camera per preghiera. Tu come ti chiama?>>

<<Io sono Assyale>>

<<Io sono Aku, vedi sul bracciale è scritto>>. Per non dimenticarsi mai di sé.

<<Che tuo nonno ti porti sempre fortuna, Aku>>.

Stringendogli la mano destra, ho portato via con me un leggero strato di sudore. Anche Aku, nei polpastrelli delle mani, doveva avere qualche varco per le sue emozioni.

Accovacciata com’ero, mi sono tirata su e sono andata via. Sentivo quei cinque occhi spingermi via, fin oltre l’angolo della strada. Il nonno. Il santo. Aku, con il suo unico occhio destro. Quale pezzo della sua storia gli aveva strappato via il sinistro dal volto, lasciandolo, così, evirato del suo sguardo? Quale fortuna era stata così dannata da privarlo della visione di insieme? Eppure vedeva, Aku. E mi ha richiamata.

<<Ei scusi. Viene qua>>.

Mi sono voltata e, occhio negli occhi, ci siamo guardati.

<<Io voglio darti questo>>. Sorreggeva tra l’indice il pollice un elefantino rosso. Come la terra bagnata. Come le fiamme alte. come l’argilla viva.

<<Perché io ho visto il tuo cuore pulito. Ti porterò fortuna >>.

Nera. E cieca per metà. Ma io l’ho vista. La fortuna con un occhio in meno.

 

Alessia Murgi

Foto dal web

 

 

 

 

 

 

 

 

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