«Sei bellissima.»
La guardavo tutti i giorni appena sveglia, mentre si pettinava, mentre si impiastricciava il viso nel vano tentativo di nascondersi agli altri. Aveva l’abitudine di salutarmi strizzando l’occhio e inondandomi di espressioni di ogni sorta. L’ho vista crescere: è venuta da me dopo aver dato il primo bacio, voleva capire se le farfalle nello stomaco si vedessero anche dal nero buco della sua pupilla. Veniva da me prima e dopo i colloqui di lavoro: non toccarti i capelli, non morderti il labbro, l’occhio tremulo per il nervoso non si nota. Ho sentito la sua voce allegra, calma, incrinata. Ho sentito la sua voce anche negli interminabili silenzi, tra sguardi di stupore e valli di lacrime. L’ho vista struccarsi e rifugiarsi nel suo pigiama. Ormai era impressa dentro di me, sapevo di poterla riprodurre anche quando non mi stava di fronte. E mi piaceva simularla mentre fingeva di cantare. Il suo playback era improponibile, si concentrava talmente tanto sul testo da perdere il ritmo, ma era così magnetica che l’avrei voluta fissare sul mio strato di argento. Avrei potuto.
L’ho vista con lui, l’ho vista piangere per lui, l’ho vista con l’altro e poi l’altro ancora e sempre lo stesso finale. Non la capivano. Se solo avessero guardato oltre il suo vetro le avrebbero risparmiato così tante lacrime.
«Un giorno ti stancherai di dirmelo, ed io mi stancherò di esserlo.»
Questo mai. Lo sai. E mi farei in mille pezzi pur di fartelo capire. Ti avvolgerei in una lieve pioggia di riflessi per mostrarti che sei così indescrivibilmente unica in ogni centimetro del tuo essere. Ti farei
capire che oltre il vetro hai l’argento, che sei argento. Guardami bene, anzi, guardati bene. Avvicinati.
Il 10 agosto di sette anni fa iniziò a piangere. Ma era un pianto diverso, un misto tra gioia e disperazione. Non chiesi e non volli sapere il perché. Poggiò la fronte su di me, sentii le lacrime evaporare sulla mia superficie, lasciavano delle piccole scie di sale.
Non mi guardò nemmeno. Un solo colpo, al centro, incredibilmente netto e preciso. Una sottile crepa iniziò a propagarsi, più correva veloce e più sentivo un vuoto incolmabile farsi spazio dentro di me. Ma non avevo paura.
Finii in terra. E se non erano mille pezzi ci ero molto vicino. Lei mi guardò e si guardò. Aveva il trucco colato, l’espressione incredula. So che non era sua intenzione. Scappò.
Ricordo il soffitto, il solletico della scopa, poi il nero. Ma una parte infinitesima di me finì sotto il comodino, nascosta bene. Non so dove sono ora, in questo nulla sconfinato, ma so che sei ancora bellissima.
Maria Michaela Pani
Foto dal web