Eravamo alla stazione Termini: tu già nel vagone del tuo treno per Torino, in partenza alle prime luci dell’alba, ed io tre gradini più in giù, sulla banchina. Entrambi reduci da una notte in bianco, ma per ragioni opposte.
Tu eri ancora elettrizzata per aver accolto la passione di un corpo il cui nome sarebbe sbiadito col passare dei chilometri su quel treno. L’euforia tua mi prendeva a schiaffi, ogni tua frase sembrava concludersi con un punto esclamativo che mi si andava a stampare sulla fronte ed io cercavo di abbozzare dei sorrisi, ma erano pallidi spicchi di luna calante.
Io ero divorato dalla febbre della passione, per me era stata una notte di pellegrinaggi: da casa al pub, poi sotto casa di tua sorella e infine alla stazione con un unico bagaglio con la scritta fragile, pieno d’emozione. Lì avrei dovuto semplicemente aprire quella valigia, ma il tuo racconto mi è franato seppellendomi. Così, nell’affanno, cercando di riemergere da quelle tue confidenze indesiderate, ho commesso l’errore più stupido inciampando nelle mezze frasi che alludono senza rivelare nulla. La tua vorace curiosità non sono proprio riuscito a saziarla. Me ne sono andato via a passi svelti, non volevo che l’ultima immagine che mi sarebbe rimasta negli occhi fosse il tuo treno che partiva.
Stavo andando verso la macchina, il mio sguardo incrociava solo cicche e cartacce lungo il marciapiede e poi un piccione che, sentendosi minacciato dal mio incedere, è volato via portando con sé i miei occhi quasi lacrimanti nel cielo sfumato dal colore tenue della luce del sole neonato di un nuovo giorno che per me era solo l’appendice di una notte infinita. Ho girato le spalle alla mia macchina e ho iniziato a camminare. Il sonno era passato, anche se ero cosciente che prima o poi avrei dovuto spegnermi, ma non ora, quello era il tempo di lenire, passo dopo passo, quella ubriacatura di passione vigliaccamente inespressa.
Sono sceso verso via Cavour e il Rione Monti.
Un pomeriggio ci siamo incontrati lì. Passeggiando per Monti ti ho fatto scoprire il mercatino vintage, che ero sicuro già conoscessi, e lì hai trovato una felpa nera col cappuccio che hai preso perché ti stava molto bene, anche se, hai ripetuto più volte che era un acquisto che non avresti dovuto fare.
Maledette gambe mi avete riportato proprio qui davanti. Come le gambe indipendenti dalla mia volontà sono tornate sui nostri passi, così pure la mia mano, una volta che tiene una penna tra le dita, va a tracciare i segni che mi hai lasciato, seleziona le sequenze più salienti in un ordine che non ha nulla di cronologico. Un ordine che segue i picchi delle curve delle emozioni provate. Seguire la scia dei ricordi non è poi così affidabile: il tempo è una lente che può ingigantire quanto rimpicciolire gli eventi a seconda del verso in cui guardi. L’ho imparato rileggendo i miei vecchi diari. Però un diario è affidabile perché fissa i pensieri sul momento, trattiene le emozioni per quello che erano senza passare per il filtro del tempo, è pura cronaca, è magma che zampilla dalle proprie viscere e scorre senza diventare roccia solidificata.
Michele Savioli
Foto di Sofia Bucci