Questa è la storia di un’attesa. Quanto lunga, non so dire, ma sicuramente è la storia di un’attesa stravagante. Quando ero una ragazza immatura e testarda, spesso lei non c’era. Avevo i capelli sempre in disordine e mi curavo poco, ma l’aspettavo. La immaginavo giungere lì davanti, per me. Non telefonava e non scriveva, ma io attendevo comunque quel treno che la portasse sulle mie strade polverose: le radici dell’appartenenza non le stabilisci, quel luogo era mio e io sentivo di appartenere a quel luogo e forse anche per questo lì aspettavo. E quando aspetti, si sa, il cuore subisce alti e bassi tipo quelle maree imprevedibili che descrivono nei documentari sulla natura. Aspettavo, e quella diventava in fretta l’attesa più eccitante e angosciosa, un accumulo di così tanto di tutto, che nemmeno riuscivo più ad ascoltare quelle voci nei miei pensieri. Ero in preciso equilibrio tra il desiderio e il timore, l’esultanza e il rifiuto, saltellavo consapevole tra i miei sentimenti sempre così contrastanti e irrequieti. Mi sentivo così imperfettamente in bilico sui binari del silenzio e del rumore, nella stazione della mia curiosità. Questa è la storia dell’attesa paziente: di un treno, di una persona, di un equilibrio, di una scoperta. Di un’occasione.
Ilaria Daddario
Foto di Marco Ragana