Non è dolce il naufragar in questo mare: l’acqua da ponte di speranza diventa superficie di una tomba naturale, del cimitero più grande al mondo, fatto di noi uomini, donne e bambini violentati, torturati e depredati della nostra dignità. Avevamo un punto di approdo: le coste, confine tra due continenti e due vite, di cui una da buttarsi per sempre alle spalle e un’altra da cominciare, più bella e dignitosa. L’approdo, invece, è arrivato prima: non davanti ai nostri occhi, ma sotto il barcone su cui stavamo. Il corpo, disidratato, improvvisamente si gonfia d’acqua come una spugna, ma non era quella ricca di odio di cui necessitavamo, bensì l’H2O che ci avrebbero offerto sulla terraferma, perché la prima va bene per pesci e sommozzatori, ma non per chi scappa da guerre e fame. Così andiamo giù, prima o poi toccheremo il fondo e, finalmente, i nostri corpi potranno almeno concedersi il non meritato riposo (perché noi volevamo vivere, mica morire!) ed eterno riposo, lontani da sguardi indiscreti e con qualche pesce che ogni tanto ci girerà intorno, casomai addentando la nostra umida pelle (manco da morti ci è concesso vivere in santa pace!). No, forse i pesci a certe profondità non ci arrivano, chissà. Comunque, ora resteremo qui, immobili, come i calchi in gesso di Pompei. O forse no, perché le onde potrebbero portarci verso la terraferma, un po’ come succede alle bottiglie di vetro con dentro un messaggio. Cristo, volevamo soltanto vivere!
Angelo Cioeta
Foto di Elisa Marengo