Dalla cima della collina vedevo il sole morente scintillare sui tetti rossi delle case di Ile-Oluji. Dalla parte opposta, invece, c’erano i boschi e gli altipiani già coperti dalla sera e la nuova strada per Ojkeigbo, quella che spacca la montagna e s’infila nella savana, nera e minacciosa, come un enorme serpente di catrame che fugge a nord.
Ero rimasto solo. Anche Ngbono se ne era andato da un bel po’. Ma quella era la stagione giusta, con i fiori bianchi pieni di macchie rosa, e lecabosse, gonfie e brune come il carbone, che aspettavano solo di essere raccolte. Bisognava sfruttare anche l’ultimo secondo di luce.
Stok, stok, stok. Questo è il rumore che fanno le bacche quando cadono. Il suono che mi ha accompagnato ogni giorno, per anni, senza tregua, dalle sei di mattina fino alle sei o alle sette del pomeriggio.
Lasciai il grosso ramo che calava verso terra, strappando al volo l’ultimo frutto. Ero stanco, ma contento. Con quei tre sacchi di bacche m’ero garantito un pugno di riso e un po’ di soldi.
M’asciugai le gocce di sudore, che dalla fronte colavano lungo il naso e nella bocca, con il pezzo di stoffa gialla che tenevo sempre in tasca. Assaporai il gusto amaro del sale sulle labbra, poi tirai su una mestolata d’acqua dal secchio, per bagnarmi la testa e dissetarmi.
Mi facevano male le braccia, le dita delle mani e il collo. Pure alla schiena sentivo dolore. Ma, grazie a dio, quella era l’ultima settimana di sofferenza. Finalmente avrei smesso di bruciare alberi, tagliare rami con il machete, raccogliere e schiacciare cabosse e litigare con i bambini che ci rubavano il lavoro.
Per strada, incontrai Prince, un ragazzo che veniva dalla città e commerciava in cipolle. Gli dissi che tra cinque giorni sarei partito. Mi rispose di stare attento, perché il cammino era duro.
C’erano voluti tre anni e tanta fatica per mettere insieme i soldi per pagare il viaggio.E così, a Dio piacendo, tra meno di un mese avrei raggiunto posti che conoscevo solo per sentito dire, ma che sognavo ogni notte. Mi sarei lasciato alle spalle la miseria, la fame e la guerra.
Faizah non era felice quanto me. Cercava di non parlarne e ogni tanto piangeva. Allora io la abbracciavo e le dicevo che presto, il prima possibile, l’avrei mandata a chiamare per raggiungermi. Aveva paura di mille cose diverse: che mi accoppassero per strada, che mi sbattessero in galera, che mi innamorassi di un’altra o che so io…
Era bella e fiera, la mia ragazza. Non era la più bella del villaggio, ma piaceva a molti. Aveva la pelle del colore dell’ebano, il collo di una gazzella e gli occhi splendenti della lince del deserto.
Il giorno della partenza, le giurai per la centesima volta che avrei pensato a lei ogni giorno e che, appena trovato un lavoro lassù, sarebbe venuta da me.
Sul letto le lasciai cinquanta dollari. Per un po’ doveva cavarsela con quelli. Non volevo che continuasse a spezzarsi la schiena nel deposito piccolo, a preparare sacchi di semi di cacao a dieci dollari al mese. Non volevo neppure che finisse nelle mani dalla gente della Sunna o che fosse rinchiusa con le altre ragazze in una di quelle scuole sul cui tetto sventolava la bandiera nera.
Alle cinque, di fronte a un’alba rossa come il sangue, raccolsi le mie poche cose nel panno che solitamente usavamo per il pranzo. Lo annodai dietro la schiena e mi misi in cammino.
La strada per Kano era come me l’avevano raccontata: lunga e ghiaiosa. Non ci passava quasi nessuno, tranne qualche camion di allevatori o contrabbandieri. Il sentiero che da Agadez porta a Sabah, invece, costeggiava la palude e la prateria fino a perdersi nel deserto. Faceva paura. Dormivo di giorno, accucciato tra le rocce, coprendomi con un lenzuolo di canapa per non arrostire al sole, e camminavo di notte, seguito dalle iene e dalle anime dei morti bruciati dai banditi.
Riuscii a scroccare un passaggio di pochi chilometri a un tizio che trasportava sorgo e miglio. Un uomo gentile, che divise con me la sua acqua e la sua carne secca di asino.
Una settimana ancora di cammino e arrivai in Libia. Lì le strade sono più grandi e trafficate, ma anche più pericolose. Sapevo dei predoni e dei serpenti, ma se con questi ultimi il machete sarebbe stato sufficiente, con i primi non sarebbero bastati neppure i fucili. Ma Dio mi volle proteggere e, a parte la fatica, non ebbi problemi.
Il pieno di frutta e acqua che feci nell’oasi di Tong’bu mi bastò per un bel po’di tempo.
Trovai il gruppo con cui avrei fatto il viaggio alla fine della sterminata landa, sotto le alture di Gholat. Eravamo in trenta. Venti uomini, sei donne e quattro bambini, di cui uno di pochi anni che nemmeno camminava bene.
Con noi, ma solo per insultarci e prenderci a sberle dietro il collo, c’erano anche quattro miliziani dell’organizzazione. A uno di questi consegnai tutti i soldi che avevo nascosto in una tasca cucita da Faizah nell’interno della camicia.
Aspettammo tre giorni in un capannone. E intanto crescevamo di numero, perché arrivava tanta altra gente. Poi ci misero tutti in fila e ci fecero camminare per quattro ore fino all’accampamento. Venimmo spinti dentro vecchie tende, sporche e piene di buchi. Nella mia, che condivisi con altri quattro fratelli, c’erano due stuoie, un portacandela e una brocca senz’acqua.
Passammo più di trenta giorni lì dentro. Il mangiare era poco e il caldo asfissiante.
Quando intaccammo la prima settimana del nuovo mese, un secondo gruppo ci prese in consegna. Brutta gente. Erano molto più cattivi degli altri ed erano armati con fucili e coltelli. E così via, di tenda in tenda, di villaggio in villaggio, in mezzo al niente, per sei mesi di sevizie e umiliazioni.
Prima di partire, Prince mi aveva raccontato cosa aveva sentito dire in televisione a proposito dei viaggi verso il nord e della strada che attraversa il grande deserto. Mi aveva parlato di torture, violenze, disperazione e cose così. Non avevo voluto credergli: il suo racconto mi era sembrato così sciocco, pieno di cliché e di esagerazioni… Ma ora vedevo tutto con i miei occhi: forse ero finito in quel cliché.
Mi sentivo a tanto così dalla morte. Ma fui fortunato. Due miei compagni Igala furono torturati e poi uccisi a martellate, perché non avevano voluto farsi derubare dei cellulari. Io non avevo più nulla, a parte il machete che consegnai senza protestare, per questome la cavai con qualche sputo in faccia e pochi calci nei reni.
Per via del poco cibo ero dimagrito sei chili, dormivo quasi nulla e avevo sempre sete, ma ero vivo.
Mi facevo forte pensando a Feizah e a quello che mi aspettava: un lavoro, una casa, un mondo migliore e più umano. Forse anche un futuro insieme.
Quando arrivammo sulla spiaggia di Zuara ormai non ci credevo più, e quello che vidi non mi piacque. Il mare era come me lo avevano raccontato, ma più grande e più blu. Mi faceva paura.
Cominciarono a farci salire a spintoni e calci in culo. Un fratello Fula, che era stato nella mia tenda, si lamentò ad alta voce dicendo che l’imbarcazione era troppo piccola rispetto al numero dei passeggeri. Venne colpito sulla testa con un fucile fino a farlo sanguinare. Nessuno disse più una parola.
Venni spinto sul bordo superiore del barcone, altri furono costretti a scendere in stiva, dove c’era puzza e caldo. I bambini piangevano. Due donne portavano sul viso, solo parzialmente coperto dal velo, i segni di sigarette spente. Quelle bruciature erano un marchio, una rivendicazione, un segno di riconoscimento per le donne violentate. Significava che quelle ragazze erano già state provate e che era andata bene.
All’inizio, la brezza del vento e l’azzurro del mare ci confortarono lavando via la polvere e il sudicio, ma col passare dei giorni gli aliti di vento si trasformarono in folate sferzanti. Le onde si erano alzate così tanto da venirci addosso. Eravamo sempre bagnati e non facevamo altro che tossire. E quando le onde erano calme, il sale si seccava sotto il sole di fuoco e bruciava sulla pelle.
Non potevamo stenderci né muoverci. Il vomito scorreva sul fondo della barca e non si asciugava mai.
Davanti a me un vecchio, che cercava di raggiungere suo figlio prima di morire, si sentì male. Urlava per il dolore e per la sete. Fu gettato a mare. Nessuno protestò. Un po’ per paura, un po’ perché ci sarebbe stato più spazio per tutti.
Pregai Dio affinché il vecchio incontrasse la sua famiglia in paradiso.
Un tempo ero stato un uomo forte e sano. Duro come una roccia. Ora mi sentivo fragile e indifeso. Peggio del vecchio gettato a mare.
Tenevo gli occhi chiusi per non vedere, ma non potevo non sentire i lamenti soffocati che venivano dalla stiva e il pianto angosciante dei bambini.
Quando i lamenti divennero grida, capii che qualcosa stava succedendo.
Aprii gli occhi a fatica, perché le ciglia, seccate dal salmastro, si erano appiccicate tra loro. Vidi quegli uomini vestiti di giallo che si affacciavano dal parapetto di una enorme nave marrone.
Erano i nostri salvatori che venivano a prenderci. Finalmente era finita, ce l’avevo fatta. Ero vivo e, non so come, la mia vita stava per cambiare.
Mi dettero una coperta d’argento, dell’acqua e un’arancia. A un certo punto le casse della barca suonarono una canzone che diceva: under my umbrella, ella ella ella. Era una canzone bellissima. Ballammo tutti. Felici. Disperati. Vivi.
Di sera, riuscii a stendermi sul ponte e a dormire sotto una coperta. Mi svegliai col sole, al momento di entrare in porto, quando il suono di una sirena mi fece sobbalzare.
Non sapevo dov’ero, ma non mi importava. Le case erano alte e i vetri delle finestre luccicavano.
C’era chi urlava e chi faceva il segno della vittoria. Le donne si stringevano al petto i figli piangendo e ringraziando Dio, Allah od Obatala.
Dopo avermi guardato i denti e levato del sangue con una siringa, un uomo vestito di bianco mi appiccicò sul petto un foglietto con una scritta. Fui accompagnato sul cassone di una grande auto che aspettava fuori dal porto. In meno di due ore arrivammo in una casa di molti piani, con delle grandi porte, dove mi dettero da mangiare e da bere e un letto per dormire. Mi sembrava di sognare. Avevo paura di svegliarmi.
Mi trovarono un lavoro. Ci venivano a prendere con dei grossi furgoni e ci portavano in campagna per raccogliere i pomodori.
Stok, stok, stok.
Il sudore mi imperlava la fronte. Le gocce che mi colavano in bocca sapevano di sale. Avevo con me un secchio d’acqua per rinfrescarmi e un cencio bianco per asciugarmi… Da dov’ero, potevo vedere le case della città con i tetti colorati, le grandi antenne tonde e le coperture asfaltate. E una strada bianca e sassosa che si snodava nella piana come un serpente.
A fine giornata ci venivano a riprendere.
Ci davano da mangiare e da bere. Ogni tanto, anche qualche soldo.
Erano angeli. Forse eravamo in paradiso.
Andrea Mennini Righini
Foto di Francesca Cecili