La vita in città scorreva lenta: Lahinch non era un luogo turistico e si estendeva per pochi impopolari chilometri di costa, prima di morire in uno sterminato prato sempre verde.
La Kincora Road arrivava fin lì. I bambini più piccoli che all’ora di pranzo giocavano a calcio sull’asfalto pensavano che il mondo finisse con la fine di Kincora Road. Che quel segnale stradale che indicava una via senza uscita fosse in realtà l’unica colonna d’Ercole superstite in un mondo che cessava di esistere fuori casa loro. Vi erano piccole leggende che si rincorrevano tra le abitazioni, raccontate da nonne e fratelli più grandi, moniti e raccomandazioni, quelle che circolavano su quella strada: i leprecauni e le pentole d’oro, le fate, i mostri, quelli che non si nascondevano sotto i loro letti, ma al di là di quel confine immaginario.
Io la amavo, Kincora Road. Si fermava all’improvviso, senza muri, recinti o cancelli. Inaspettatamente l’asfalto diventava erba, la segnaletica sassi, gli esseri umani bestiame. Io mi fermavo lì con lei, dopo il lavoro, mentre tornavo a casa, e osservavo ogni villetta dipinta di colore diverso, immaginando chi abitasse al suo interno e chi invece vivesse al di là di quel prato, nella città più vicina.
Il mio luogo preferito, sulla Kincora Road era il pub all’angolo con Kettle Street.
Io entravo lì di tornare a casa e dopo aver camminato fino alla punta estrema di quella via per ammirare l’infinito che si svelava ai miei occhi. Mi bevevo uno scotch liscio al bancone e la guardavo.
Portava i tacchi alti con disinvoltura e i capelli rossi legati in una treccia morbida sulla spalla sinistra. Mi salutava sempre con quel suo accento del sud strascicato tra i denti e la canottiera slabbrata. Il suo fidanzato, un omone pieno di tatuaggi e pelato, la chiamava Mughain. Io non avevo mai imparato il suo nome, ma se qualcuno ritenesse appropriato chiamarla Luna, un motivo ci dovesse essere.
I clienti erano sempre di meno, con l’arrivo dell’inverno. La neve bloccava tutti dentro casa, davanti ai camini e a una tazza di tè bollente, circondati dai propri cari. Tutti tranne me, che guardavo le lancette dell’orologio muoversi nel quadrante per tutto il giorno, aspettando solo il momento in cui avrei imboccato la Kincora Road, prima di entrare nel pub.
E quando il momento arrivava, non deludeva mai.
Irene De Marco
Foto di Alberto Piras