Un paio di anni fa ho intrapreso un viaggio stupendo. Uno di quelli dove si parte con lo zaino in spalla, pochi cambi e la voglia di riportare a casa il più possibile. Sono arrivata in una terra verde come la speranza, incredibilmente feconda ai visitatori, dove le biciclette sfrecciavano tra i cesti di tulipani e nel cielo sventolavano bandiere di ogni paese. In una piazza, Rembrandtplein, prendeva vita un dipinto i cui personaggi erano stati forgiati nel bronzo e sembravano in armonioso movimento. Il pezzo forte di questa terra incantata, dove a scorci di bellezza si accompagnano squarci di surreale e delicata magia, sono i musei. Ce n’è uno, il museo della Resistenza, il Verzetsmuseum, che ha scavato un solco profondo dentro di me, soprattutto nella parte dedicata ai deportati nei campi di concentramento. In teche di vetro che si sviluppavano verticalmente, erano posizionati ninnoli e gingilli confezionati con cura e precisione chirurgica dai prigionieri. C’era un alberello di Natale fatto di stuzzicadenti con tanto di ovatta che simulasse la neve; c’erano delle carte da gioco ritagliate da cartoni di scarto con sopra figure e numeri scarabocchiati con il carbone; poi c’era un pupazzetto dalla forma umanoide. Era di polvere. Polvere e capelli. Ci ho messo un po’ a capire di cosa fosse fatto. Nebulose grigie modellate e fermate con degli spaghi sottili. Nonostante le atrocità subite quotidianamente, i deportati avevano cercato di ricrearsi un loro mondo, una familiarità fatta di strumenti rudimentali e insignificanti materiali, ma anche di tanta creativa e umana passione. Qualcosa di commovente e agghiacciante allo stesso tempo. E quel pupazzetto di polvere non mi lasciava in pace, sembrava fissarmi. Dovevo capire, volevo capirlo. Ho immaginato la polvere volteggiare nell’aria, come neve silenziosa. Qualcuno ad osservarla mentre cadeva dal raggio di sole entrato furtivamente dalla piccola fessura di una finestra serrata. Orbite eccentriche ed infinite in cui perdersi e immaginarsi liberi. Magari era stato un padre, umile creatore, e donargli forma e vita per far giocare il figlioletto o affinché glielo ricordasse solamente. Oppure un bambino che aveva voluto costruire un gioco con cui trastullarsi. Non tutto ci è concesso sapere di ciò che è passato, ma ritorna a ricordarci che c’è stato, come la polvere. Quel pupazzetto è rimasto nella teca di vetro, eppure lo avverto costantemente. Ce l’ho sempre davanti agli occhi.
Giorgia Pellorca
Foto Billi Howard