C’è un momento in cui le cose nascono e da lì in poi la vita si spiega. Ecco, esattamente da quel momento si ha una radice, l’origine di tutto. Nel suo dispiegarsi tuttavia la radice si fortifica, s’irrobustisce e si amplia. La solita storia del seme e l’albero, tanto per intenderci.
Tanto più le radici sono solide tanto più forti e intense saranno le sue protuberanze, i suoi tronchi, i suoi rami. Eppure c’è sempre qualcosa di banalmente nostalgico in questa concezione delle radici: la nostra casa, la nostra terra, il peso che ci tiene fermi in equilibrio.
Come una molla, più ci allontaniamo dalle radici e più esse ti reclamano indietro, più forte è la corsa per allontanarti e più forte sarà lo schianto al ritorno.
Ma le radici hanno una vita sotterranea, intima e silenziosa; la vita fuori da esse si vive sui rami, al fresco delle foglie, godendo dei suoi frutti, alla luce del sole e non all’ombra della terra che, impassibile, ammira il seme sempre uguale a sé stesso, forte soltanto della capacità di aver generato.
La devozione verso le radici nasce da un convincimento, semplice e nobile allo stesso tempo, di rispettare e preservare ciò che è stato e che eternamente sarà. Le radici non si toccano, sono sacre, vi è nei loro confronti una riverenza divina e immutabile che richiede solo devozione e un atto di fede: venerarle per ciò che sono state, dimenticando forse che la loro vita si manifesta poco più in alto, sui rami e tra i frutti.
Più che i tronchi forti e le radici eterne, mi ha sempre affascinato la vita sugli alberi, convinto sin da piccolo, come Cosimo Piovasco di Rondò, che di ramo in ramo avrei percorso il mondo, con la convinzione che lì si trovasse la vita: nell’avventura della scoperta, nel pericolo di correre verso l’ignoto piuttosto che stare a terra a cementificare l’eterno, divinizzare ciò che è stato e scegliere di vivere nella certezza di un ricordo o nella constatazionedell’immutabile.
Anche oggi guardo alle radici col rispetto che meritano, con un sentimento di gratitudine per avermi procurato dei rami e avermi permesso di guardare oltre, più in alto ancora.
E le ammiro per il dono che ci hanno dato, per la vita che ci hanno permesso e credo, in fondo, che se queste radici potessero parlare si disferebbero molto velocemente di chi dice di difenderle senza sopportare un po’ del loro sacrificio.
Le radici esistono per ricordarci chi siamo, non per incatenarci a esse; le radici ci offrono una possibilità, non un limite.
Le radici giacciono imperiture in memoria di ciò che è stato, in onore di un tempo perduto da cui imparare, ma la vita si trova sui rami, nelle orbite inesplorate che essi ci indicano, dove siamo tutti più lontani dalla base, dove diventiamo indistintamente uguali e piccoli.
Le radici ci trattengono, ma ci elevano fino al punto da dimenticare le piccolezze che ci separano e ci uccidono. La vita è oltre, è altrove, è poco più in alto, dove siamo liberi nel pieno rispetto della base che ci sostiene, della terra sotto ai nostri piedi, della nostra storia e del nostro passato.
Ma starcene ai piedi dell’albero non ci porterà molto lontano, ci affolleremo a professare il nostro rispetto, ad indicare chi più di altri è fedele alla causa, chi è più puro e più meritevole. Ma le radici sono di tutti, per cui è facile impossessarsene; la vita sui rami è tutt’altra cosa.
Provate a salirvi e a non scendere mai più; le radici, se davvero ci credete, continueranno a sostenervi.
E se anche voleste scendere, almeno un po’ avrete vissuto davvero.
Gianmarco Mattoccia
Foto: Angela Marano