Lei si chiama Grammelot e ha un nome francese. Lui si chiama Dario, Dario Fo. Lei è una lingua, lui il suo creatore. Grammelot significa gioco e nasce evocando suoni, ritmi, intonazioni in un discorso che non risponde a nessuna regola grammaticale e che apparentemente non ha alcun significato: perché i suoni assomigliano alle parole ma non sono parole, sono piuttosto l’evocazione di toni e cadenze tipiche di uno o più dialetti, di una o più lingue. È il ritmo generale, il contesto in cui quei suoni appaiono a suggerire il senso di un non troppo apparente borbottare. Fondamentale, per questo, è la capacità mimica e gestuale dell’attore che parla Grammelot. Capacità che diventava maestria in Dario Fo: attore, regista, scrittore e drammaturgo utilizzò per la prima volta il
Grammelot in una delle sue opere teatrali più famose, Mistero Buffo (1969), uno spettacolo recitato in cui il dialetto lombardo, quello veneto e il friulano si mescolano con la lingua dei giullari medievali. Il Grammelot affonda le radici nel pluridialettismo della Commedia Rinascimentale e della Commedia dell’arte, che hanno insegnato a Dario a liberarsi della scrittura letteraria convenzionale e a esprimersi con suoni inconsueti, parole da masticare, ritmi e respiri diversi. L’intento è dichiarato: recuperare una cultura popolare in via di estinzione. E, in altre parole, è anche la motivazione del Nobel per la letteratura, assegnatogli nel 1997: «Perché, seguendo la tradizione dei giullari medievali, dileggia il potere restituendo dignità agli oppressi».
Veronica Della Vecchia