Come se non bastasse il dolore causato dalle stragi della criminalità organizzata, ecco arrivare puntuale l’intervista in TV a Salvatore Riina jr, figlio del “capo dei capi” e con alle spalle 8 anni e 10 mesi di reclusione per associazione mafiosa. Fosse stato un momento ove il figlio condannava la vita criminale del padre avrebbe avuto un senso, in quanto un messaggio forte e chiaro lo avrebbe lanciato. Invece, Salvatore ha presentato il suo libro, dove parla della famiglia “felice fino a quando non ne hanno arrestato il padre”, il tutto condito da un garantismo da opera buffa: sono le sentenze che rendono cattivo Totò, «ma per me resterà un padre affettuoso». Anche questa volta ingoiamo il rospo senza troppi patemi, quasi a confermare quel buonsenso che nei pressi di Radio Aut aveva un che di negativo («Voi avete dalla vostra la forza del buonsenso, quella che non aveva Peppino [Impastato, ndr]»). L’obiettivo è andare avanti, fare finta che non sia successo nulla. Quasi non facciamo più caso ad un sistema criminale che ormai sembra essere parte costitutiva della nostra storia e della nostra cultura. Non fosse così, sarebbe facile pensare davanti a quale paradosso ci troviamo: il figlio del “capo dei capi” che presenta alla luce del sole il suo libro sugli affetti familiari di uno stragista, mentre Denise Cosco – classe 1991 – si ritrova a vivere in una località segreta, « rea » di essere stata testimone di giustizia al processo sulla morte della madre -Lea Garofalo – uccisa dalla n’drangheta. In conclusione: un Paese ove si spendono parole su Totò Riina come “buon padre di famiglia”, (quasi) a prescindere dalla fedina penale , è un Paese pronto ad un cambiamento deciso verso la tanto decantata cultura della moralità?
La primavera tarda ad arrivare
