Richiamo

Vi era su quella piana la traccia di qualcuno, si tramanda, annegato nel mare violaceo delle spighe piegate al vento di Ponente. I cardi scrocchiavano alla vivacità dei raggi di mezzogiorno per poi divenire quasi decorazione verso sera, ammorbidendo rutilanti la forma aguzza del soldato. E al chinare rispettoso d’ogni erba, alla fine del giorno, torna a parlare qualche vecchio abitante del luogo. Il cuore del cardo si riscalda, il fiore esplode emanando l’odore ferroso del sangue. Una pietra nelle vicinanze sospira. É lo sforzo dell’antico: cosa mi canti vecchio pastore, con le spine al posto delle mani? Canti forse qualche bucolica imitando il verso delle vacche? Non è certo una prova di forza, ma quei massi scossi dalle querce ci avvertivano che in continuo camminare ritornano le ombre, trattengono e rilasciano le stagioni gli sguardi su quella apertura verso il mediterraneo. Senza patria e colonizzati dall’estraneo, prendiamo squilibrio dall’esemplare resa dei manufatti. E senza pretesa di sapere quel che io sono ti dico il mio nome, Dafni che gli allori salutano. Con lunghi capelli tra i fiordi e glabro tra i vostri, con il fiore del cardo negli occhi di allessandrite urlo il disagio dei dimentichi. E tra questi cupi sentieri del Lazio che raccolgono preghiere dai tempi dei diluvi, proprio tra queste colline cio che io pronuncio “oida”, la dolce Eco risponde “veda”, macchiando i nostri prati con le spezie di Sindhu, rivelando la ferita del riconoscimento.

 

Gabriele Romani

Foto: Paolo Coronas

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