A carte scoperte

Hai comprato quel mazzo di carte a Napoli, con le mani sporche di pizza fritta, ad un’edicola in piazza San Domenico Maggiore tra l’odore del caffè e le cartoline del Vesuvio. Abbiamo passeggiato per Spaccanapoli lasciandoci intagliare le facce da sferzate gelide, abbiamo comprato due berretti di lana al mercato di Pignasecca per arrivare fino a Capodimonte e guardare il golfo senza che il freddo ci spaccasse la testa. Era così una bella giornata che non si riusciva a guardare il mare da quanto brillava e non ci siamo curati del freddo, tutto sembrava abbagliato, offuscato dal vento e dal sole fortissimo. Siamo saliti sul treno per Roma fiaccati dalla febbre, con due sfogliatelle incartate messe dentro una busta di plastica, tu tenevi il mazzo in tasca. Arrivati a casa tua nel pieno dell’influenza abbiamo passato la notte di Capodanno sul divano, a guardare un vecchio film con Robert De Niro. Ci siamo accorti che era arrivato il nuovo anno solo perché fuori le esplosioni dei botti hanno fagocitato il silenzio prima della fine del film. Allora mi sono alzata dolorante e ho versato due dita di spumante nei bicchieri e tu hai tagliato due fette di pandoro. Poi il film è finito e siamo andati subito a dormire sotto due piumoni. Ho pensato che fosse il Capodanno più insolito della mia vita, mia figlia era rimasta con il padre, io e te abbastanza malandati ma comunque di buon umore, a tastarci reciprocamente le fronti bollenti con un tocco delle labbra secche, tutti spettinati e infagottati. La mattina dopo hai messo su l’acqua per il tè, hai portato le tazze fumanti in camera da letto e le hai posate sul comodino, poi hai tirato fuori quel mazzo di carte e hai cercato di insegnarmi come si gioca a scopa. Il primo giorno dell’anno abbiamo giocato la nostra prima partita a carte. Forse ci avevo giocato qualche altra volta in vita mia, ma avevo completamente rimosso la logica, l’inganno, la strategia necessaria. Serio, serissimo, mi hai guardato e hai enunciato le regole prima ancora di fare le carte, e mentre parlavi, scandendo bene le parole come se fossi una bambina, provavo un misto tra un forte imbarazzo e voglia di riderti in faccia, di una risata nervosa. Volevo dirti che avevo cambiato idea, che non volevo più giocare, ma ho resistito e ormai avevo già le carte in mano. “La prima la giochiamo a carte scoperte.” mi hai detto. Dopo il primo giro avevo già addosso la fortuna del principiante e ti ho distaccato con una buona manciata di punti, ma non mi sentivo tranquilla, avevo paura di sbagliare. Volevo ancora che mi guardassi le carte e mi dicessi cos’era giusto fare. Ma ognuno gioca la sua strategia, incomprensibile e nascosta all’avversario, chi punta ai denari, chi punta alle carte, chi si becca le scope. Continuavo a vincerti, sempre con un po’ di incertezza prima di gettare la carta. C’era tensione nell’aria, la nostra febbre, la voglia di vincere tutti e due. “Non è facile” ti ho detto, poi ho tossito forte. “Guarda che la gente ci si ammazzava per questo”. È vero che giocare è una cosa seria. Anche mia figlia, che non è tua, è capace di puntare i piedi e piazzare una scenata se il gioco non va come decide lei. Vorrei avere la sua stessa passione, concedermi di fare i capricci, ostentare lo stesso ardore dei giocatori di una volta, tirare fuori il coltello e puntartelo alla gola pur di non perdere la partita. Giocare con te è stato spaventoso, tirare fuori la giusta dose di orgoglio, sfilarti i denari e cercare di fregarti a tutti costi per far salire il mio punteggio, trattenere i brividi di freddo dell’influenza e allo stesso tempo creare quel sottile livello di confidenza in cui si accettano rigorosamente le stesse regole. Alla fine ti ho stretto la mano ghiacciata, perché mi avevi battuto nonostante i miei sforzi e in quel momento eravamo solo giocatori e non più amanti, ognuno esisteva per sé stesso e la sua vittoria sull’altro. La febbre è passata, siamo sopravvissuti alle feste e agli starnuti, è rimasto il retrogusto del pomodoro napoletano della pizza in Via Tribunali, quel tremore quando tenevo le carte tra le dita e ridacchiavo, la vergogna infantile di aver perso la nostra prima partita. Sono tornata a casa mia guarita e ho giocato con mia figlia, anche lei non sa perdere e ha pianto molto prima di accettare la sconfitta a “Indovina Chi”.

Tieni da parte il mazzo, quando tornerò da te avrò un coltello affilato in tasca.

Elisa Cappai

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